DALLA LETTERATURA

AL VIA UN PROTOCOLLO PER L’INDUZIONE DELLA TOLLERANZA NEL TRAPIANTO RENALE
Il numero di questo mese dell’American Journal of Transplantation Report offre un aggiornamento sullo stato di avanzamento dei protocolli di tolleranza nel trapianto di rene, che possono aiutare a svezzare i pazienti dal trattamento immunosoppressivo.
Tra le varie iniziative si apprende che, quest’anno, Medeor Therapeutics, un’azienda biotecnologica dedicata alla scoperta e allo sviluppo di immunoterapie cellulari trasformative e personalizzate, avvierà uno studio multicentrico di controllo randomizzato sull’induzione di tolleranza nei pazienti HLA corrispondenti.
In breve, lo studio prevede il trattamento del donatore di rene con un fattore stimolante le colonie di granulociti, che fa migrare le cellule staminali dal midollo osseo al sangue periferico, dove possono essere raccolte tramite leucaferesi.
Dopo il trapianto di rene, le cellule staminali isolate e le cellule T vengono trapiantate al paziente al quale è stata praticata un’irradiazione totale del corpo per fare spazio alle cellule staminali trapiantate. Le cellule immunitarie del donatore creano così un sistema immunitario chimerico all’interno dell’ospite consentendo allo stesso di tollerare l’organo trapiantato.
Se il donatore e il ricevente sono fratelli HLA corrispondenti, il ricevente ha una probabilità dell’80% di sviluppare tolleranza e di essere svezzato dall’immunosoppressione.
Secondo il Dott. Scandling, direttore del Kidney and Pancreas Transplantation program presso l’Università di Stanford a Palo Alto, in California, il protocollo per le coppie HLA corrispondenti è praticamente pronto per essere riprodotto anche in altri centri.
“Se lo studio clinico di Medeor Therapeutics avrà successo, i pazienti dovrebbero iniziare a uscire dal loro regime immunosoppressivo 9-12 mesi dopo il trapianto; il che significa che, a un anno o due da oggi, potremmo vedere un gruppo di pazienti trapiantati in tutto il Paese svezzati dalle terapie immunosoppressive” afferma ancora Scandling.
Finora i primi risultati di Stanford e Northwestern indicano che il protocollo di tolleranza non ha portato effetti collaterali come l’aumento di infezioni o di cancro (Hum Immunol 2018).
Secondo i ricercatori ciò è probabilmente dovuto al fatto che il regime di condizionamento per il trapianto di cellule ematopoietiche è molto più leggero di quello del regime utilizzato per il cancro, quindi i pazienti sottoposti a trapianto non sperimentano le gravi conseguenze del condizionamento intensivo osservato nei pazienti oncologici.
Tuttavia, i pazienti che ricevono reni HLA corrispondenti hanno in genere ottimi risultati, con un tasso di sopravvivenza del trapianto a un anno superiore al 95% e una durata media dei reni di 20-25 anni.
Nonostante questi ottimi risultati, molti sono desiderosi di provare l’induzione della tolleranza per essere svezzati dal regime immunosoppressivo e spesso contattano i centri di Stanford e Northwestern University per essere inseriti nel protocollo.
Ci vorranno comunque diversi anni prima che i dati sull’esito siano abbastanza robusti da determinare se l’induzione della tolleranza fa davvero la differenza nella vita di questi pazienti.
Ma, il Santo Graal del trapianto rimane l’accettazione dell’organo nei pazienti HLA non corrispondenti, ed è su questo che i ricercatori della Northwestern University stanno concentrando i loro sforzi.
Infatti, la durata media di vita di un rene incontaminato da donatore vivente HLA non corrispondente è di circa 15 anni e, nonostante la forte immunosoppressione, il rene alla fine viene perso a causa del rigetto cronico.
Sarebbero dunque questi pazienti a trarre maggiore vantaggio da un protocollo di tolleranza, ma sono anche quelli maggiormente a rischio di complicanze.
Ad oggi, nessun trapianto HLA corrispondente ha sviluppato la malattia del trapianto contro l’ospite (GVHD), ma nei trapianti HLA non corrispondenti la storia è diversa e la maggior parte dei programmi di trapianto è notoriamente avversa a un tale rischio nei loro pazienti.
Pertanto, come spiegano i ricercatori, l’asticella immunologica per i pazienti HLA non corrispondenti è molto più alta e per raggiungerla, probabilmente, il prossimo passo sarà quello di combinare il trapianto di cellule staminali con l’infusione di cellule T regolatorie espanse del ricevente.
Insomma, per lo svezzamento dalla terapia immunosoppressiva, l’obiettivo finale rimane l’induzione della tolleranza fino a raggiungere il chimerismo sistemico e duraturo.
Ma la realtà è che si tratta di un processo lento in cui ogni volta che si fa qualcosa di nuovo bisogna aspettare mesi per vedere il risultato.
Nonostante ciò i ricercatori non si arrendono e continuano a riorganizzare i protocolli in funzione di nuove intuizioni e scoperte.
Questa è la garanzia più grande che prima o poi l’obiettivo finale verrà raggiunto.
Bibliografia
Pullen LC. Tolerance induction in kidney transplantation. Am J Transplant 2018; 18: 1297-98.



COME DEFINIRE L’IDONEITÀ DEL PANCREAS AL TRAPIANTO, DUE SISTEMI A CONFRONTO
Valutare l’idoneità di un organo al trapianto è un passo cruciale nell’utilizzo ottimale di risorse cronicamente insufficienti rispetto alla domanda; ciò è particolarmente importante per gli organi più delicati e per questo più esposti a vari insulti che ne possono pregiudicare l’utilizzo.
È il caso del pancreas per il quale sono stati creati diversi sistemi di punteggio al fine di supportare il processo decisionale clinico volto alla loro idoneità pre trapianto.
Il rovescio della medaglia è che questi sistemi possono anche ridurre significativamente il numero di organi potenzialmente utilizzabili, per cui è fondamentale valutarne l’affidabilità.
Questo studio mira proprio ad analizzare la validità di questi sistemi, in particolare del “Pancreas Donor Risk Index” (PDRI) e del “Preprocurement Pancreas Allocation Suitability Score” (P-PASS) in un grande centro di trapianti di pancreas tedesco.
Il P-PASS, introdotto in Eurotransplant nel 2008, è composto da 8 fattori clinici del donatore, disponibili prima del trapianto (età, indice di massa corporea, unità di terapia intensiva, arresto cardiaco, sodio siero, amilasi sierica, lipasi sierica, uso di catecolamine) e prevede uno score che va da un minimo di 9 punti a un massimo di 27.
Più il punteggio è alto, maggiore è la possibilità che l’organo venga rifiutato perché ritenuto in correlazione con una peggiore sopravvivenza dell’organo post trapianto (Vinkers MT, et al. How to recognize a suitable pancreas donor: a eurotransplant study of preprocurement factors. Transplant Proc 2008).
Non a caso la maggior parte dei centri tende a utilizzare pancreas con punteggi P-PASS inferiori a 17.
Il PDRI, maggiormente in uso negli stati Uniti (UNOS), ha lo stesso scopo ma comprende 10 parametri del donatore e si differenzia dal P-PASS per alcuni di questi (età, indice di massa corporea, altezza, creatinina sierica, genere, etnia, incidente vascolare cerebrale, DCD, tipo di trapianto, tempo di ischemia fredda).
Gli autori hanno dunque analizzato i risultati di 322 pazienti trapiantati di pancreas in un unico centro tedesco. Gli stessi sono stati divisi in due gruppi: (115 casi con punteggi P-PASS <17 e 207 con punteggi ≥17), corrispondenti a 3 gruppi secondo il sistema PDRI (87 casi con punteggio <1; 133 con punteggio tra 1-1,5 e 102 casi con punteggio >1,5).
In sintesi, i risultati dello studio mostrano che, sebbene il P-PASS abbia mostrato un’associazione con il fallimento dell’innesto precoce, non è riuscito a mostrare un risultato simile per quanto riguarda sopravvivenza del trapianto di pancreas a lungo termine.
Ciò è in linea con altri precedenti studi giunti alla stessa conclusione (Schenker P, et al. Preprocurement pancreas allocation suitability score does not correlate with long-term pancreas graft survival. Transplant Proc 2010).
In particolare gli autori sostengono che non c’è un’associazione tra P-PASS ≥17 e insufficienza del trapianto a lungo termine. Ciò significa che la politica di accettare solo pancreas con punteggi P-PASS inferiori a 17 dovrebbe essere criticamente riesaminata perché riduce ingiustificatamente il pool di pancreas potenzialmente idonei al trapianto.
Il sistema PDRI ha invece dimostrato di essere uno strumento migliore per questo, con valori di PDRI >1,5 che sono risultati associati a risultati significativamente peggiori dopo il trapianto.
In particolare, un punteggio PDRI più alto di 1,57 è associato a una riduzione significativa della sopravvivenza del trapianto a un anno, per cui questo sistema, più dell’altro, può essere d’aiuto nell’individuazione di organi a maggiore rischio nella fase di allocazione.
Quindi il PDRI si dimostra un sistema predittivo di sopravvivenza del trapianto di pancreas più affidabile, anche se risultati positivi possono essere realizzato con innesti da donatori con punteggi PDRI pure più alti.
La sensazione finale che trasmette lo studio è però che il ruolo di questi sistemi di valutazione del rischio può essere solo di supporto nel processo decisionale d’idoneità dell’organo.
Questo vale non solo per il P-PASS, ma anche al PDRI. La decisione di accettare o rifiutare un pancreas dovrebbe essere dunque basata sulla valutazione anche di diverse variabili in cui le condizioni del ricevente sono ancora centrali e i risultati altamente dipendenti da queste.
Bibliografia
Ayami MS, Grzella S, Viebahn R, et al. Pancreas donor risk index but not pre-procurement pancreas allocation suitability score predicts pancreas graft survival: a cohort study from a large German Pancreas Transplantation Center. Ann Transplant 2018; 23: 434-41.



INTEGRAZIONI ALLE LINEE GUIDA SUL TRAPIANTO DI RENE DA DONATORE VIVENTE DEL REGNO UNITO
Nel marzo 2018 la British Transplantation Society ha pubblicato la quarta edizione delle linee guida UK accreditate per i trapianti di rene da donatore vivente, che aggiornano la precedente versione pubblicata nel 2011.
In questo articolo gli autori del St Helier Hospital (University of London) evidenziano alcune delle modifiche più significative riassunte in quattro principali tematiche: demografia dei trapiantati; valutazione dei fattori di rischio; incentivazione della donazione altruistica; risultati a lungo termine.
La prima tematica prevede di raggiungere un tasso di donazione da vivente stabile fissato a circa un terzo dei trapianti di rene complessivi; il ricorso quasi universale alla nefrectomia in laparoscopia e una riduzione del 17% della lista d’attesa dovuta sia all’aumento delle donazioni a cuore fermo, all’uso di donatori di criteri estesi e, soprattutto, all’efficacia della donazione accoppiata/altruistica.
Nel capitolo dei fattori di rischio le raccomandazioni riguardano l’aggiornamento delle soglie di sicurezza che sono ora meno restrittive rispetto alle precedenti raccomandazioni.
In particolare, vengono posti in evidenza:
• percorsi aggiornati e scadenze raccomandate per la valutazione dei donatori;
• un questionario sui modelli di screening per la valutazione della salute dei donatori;
• nessun limite di età anagrafica superiore per la donazione, anche se viene raccomandata un’attenta valutazione del fattore di rischio nei donatori di età superiore a 60 anni;
• nessun limite superiore formale dell’indice di massa corporea per la donazione, con un richiamo all’aumento del rischio quando l’indice di massa corporea è compreso tra 30 e 35 kg/m2 e un limite di sicurezza fissato a 35 kg/m2;
• criteri che definiscono l’ipertensione dei donatori invariati, ma maggiore enfasi sul monitoraggio ambulatoriale della pressione arteriosa e sul rischio cardiovascolare complessivo;
• possibilità di considerare la donazione da pazienti con diabete di tipo 2 ben controllato, con fattori di rischio stabili e nessun danno d’organo bersaglio, ma da sottoporre a un’attenta valutazione del rischio cardiovascolare e renale a vita;
• uso di ecocardiografia da stress e / o angiografia coronarica per valutare i potenziali donatori ad alto rischio cardiaco;
• nuove raccomandazioni per i casi di donazione da soggetti positiva per l’HIV, l’epatite B, C e l’epatite E;
• rassegna genetica formale raccomandata per potenziali donatori con malattia della membrana basale sottile, sindrome di Alport e glomerulosclerosi focale segmentaria.
Sul tema della donazione altruistica viene posto l’obiettivo di un aumento del 10% per quella non diretta relativamente tutti i trapianti da vivente; una riduzione significativa del trapianto incompatibile a causa di anticorpi preformati e un uso sempre più crescente di protocolli di condivisione dei reni per coppie compatibili per ridurre al minimo le disfunzioni degli antigeni leucocitari e del delta di età, laddove non vi siano altre barriere immunologiche al trapianto. Infine, viene raccomandato un modello specifico per la valutazione della salute mentale del donatore.
L’ultimo macro aspetto riguarda i risultati. In esso viene posta particolare importanza agli esiti a lungo termine dei donatori, sia per quanto riguarda la funzione renale, sia la mortalità, che devono essere rassicuranti. Per essere considerati tali, il rischio di una filtrazione glomerulare stimata inferiore a 30 ml/min post donazione, o di malattia renale allo stadio terminale dopo la donazione, deve rimanere sotto l’1%.
Contestualmente viene riconosciuto che la soglia sopra riportata è maggiormente a rischio in particolari casi, come i donatori di colore, quelli giovani, i donatori obesi e quelli con una storia familiare di malattia renale. in questi potenziali gruppi di donatori viene raccomandata una particolare cautela.
Così come viene riconosciuto un aumentato rischio ostetrico nelle donatrici in età fertile.
In pratica la revisione delle linee guida non sconvolge le versioni precedenti, ma le integra con nuove nozioni cliniche e comportamentali che derivano dall’esperienza e dalle modificazioni strutturali (non ultima la Brexit) a seguito della quale vengono formulate precise raccomandazioni per la valutazione dei potenziali donatori non residenti nel Regno Unito, con l’introduzione di un modello di lettera per le domande di visto di ingresso nel Paese.
Bibliografia
Andrews PA, Burnapp L. British Transplantation Society/Renal Association UK guidelines for living donor kidney transplantation 2018: summary of updated guidance. Transplantation 2018; 102: e307.



TRENTADUE MILIARDI DI DOLLARI, TANTO COSTA AL SISTEMA SANITARIO STATUNITENSE LA STEATOSI NON ALCOLICA
La steatosi epatica non alcolica, o NAFLD, che colpisce circa 100 milioni di americani, costa al sistema sanitario degli Stati Uniti 32 miliardi di dollari l’anno.
È quanto emerge da uno studio preliminare effettuato dai ricercatori dell’Intermountain Healthcare e presentato in occasione della conferenza annuale di quest’anno della Digestive Disease Week a Washington.
Secondo i ricercatori, la prevalenza della steatosi epatica non alcolica rispecchia la crescente tendenza dell’obesità negli Stati Uniti, tanto che a livello globale, una persona su quattro vive con tale condizione che è diventata la forma più comune di malattia epatica cronica, dal costo paragonabile solo all’ictus secondo i Centers for Disease Control and Prevention.
Quindi “identificare con esattezza il peso economico della steatosi epatica non alcolica richiama l’attenzione sul reale bisogno di trattamenti che consentano di risparmiare denaro e vite”, affermano gli autori.
Per lo studio, i ricercatori dell’Intermountain Medical Center a Salt Lake City hanno esaminato le cartelle cliniche per un periodo di 10 anni (2005-2015), identificando 4569 pazienti con diagnosi di steatosi epatica non alcolica e, ai fini comparativi, un gruppo di controllo di 12.486 pazienti senza diagnosi per questa malattia.
I ricercatori hanno dunque analizzato i costi sanitari per paziente e i costi complessivi all’anno in entrambi i gruppi. I costi sono stati poi estrapolati su scala nazionale evidenziando un onere economico di circa 32 miliardi di dollari all’anno per la nazione.
In particolare i costi per la cura della malattia includono: – ricovero ospedaliero e appuntamenti ambulatoriali; – visite al pronto soccorso; – trapianto di fegato; – mortalità; – procedure mediche o nuove diagnosi; – nuovi farmaci o modifiche ai farmaci esistenti.
“Si tratta della prima ricerca che stima i costi dell’effettivo utilizzo dell’assistenza sanitaria associata alla steatosi epatica non alcolica negli Stati Uniti”, ha dichiarato Richard Gilroy, direttore medico del programma di epatologia e trapianto di fegato presso l’Intermountain Medical Center.
“I risultati evidenziano il grande problema che affrontiamo oggi e il potenziale tsunami che incontreremo se scegliamo di non affrontare le cause della NAFLD ora”.
“Siamo in piena era di aumento dei costi sanitari e quella che era una malattia non riconosciuta e rara negli anni ’80 è ora diventata una grave epidemia destinata a far lievitare ulteriormente i costi negli anni a venire”, avverte Gilroy.
Considerando le importanti implicazioni finanziarie di tale condizione, i risultati dello studio evidenziano anche la potenziale possibilità di riduzione dei costi sanitari se i trattamenti diventassero disponibili per tutti. In particolare con il programma di trapianto di fegato, l’Intermountain Medical Center dimostra che i costi si possono abbattere.
Ma non ci sono e non ci saranno mai abbastanza fegati per soddisfare una richiesta in continua ascesa.
È il motivo per cui hanno messo a punto e convalidato un punteggio di rischio predittivo che utilizza i valori di laboratorio di base e l’anamnesi dei pazienti, per prevedere chi di loro è a più alto rischio di sviluppare irreparabili danni al fegato a causa della malattia.
I ricercatori prevedono di utilizzare lo strumento di previsione per affrontare il problema a livello di popolazione globale intervenendo con opzioni nutrizionali e terapeutiche, prima che il paziente raggiunga l’insufficienza epatica terminale risolvibile solo con il trapianto.
Bibliografia
Charlton M, Dong l, Holmen J, et al. NAFLD: impact on healthcare resource utilization, liver transplantation and mortality in a large, integrated healthcare system. Gastroenterology 2018; 154: S-1109-S-1110.